domenica 14 giugno 2009

Patti Infranti

La musica popolare ha i suoi miti fondativi. Uno dei più persistenti vuole che gli artisti seminali del blues e del rock abbiano ceduto la loro anima al diavolo, in cambio di talento musicale e successo terreno. Questo post vuole scagionare alcuni musicisti sospettati di aver forgiato un patto demoniaco – o quantomeno difenderne la buona fede perché, se avessero veramente venduto la loro anima, sarebbero caduti vittime di un raggiro, considerato quanto poco hanno ottenuto in cambio:

# 3 Robert Johnson. I patriarchi del blues sono personaggi dai contorni biblici, con dati anagrafici incerti e capacità artistiche soprannaturali. Il giardino dell’Eden del blues è un remoto incrocio nello stato del Mississippi, dove secondo la leggenda un giovane chitarrista senza talento, Robert Johnson, avrebbe incontrato uno sconosciuto che si offrì di accordargli la chitarra. Accettando l’offerta Johnson rinunciò all’anima ma acquisì la sapienza del blues – la straordinaria capacità di comunicare la propria tristezza con la musica.

Johnson raggiunse la fama diversi decenni dopo la morte, quando alcune sue fortuite registrazioni risalenti agli anni 30 furono riscoperte dai grandi chitarristi inglesi degli anni 60. A parte una buona accordatura, non è dunque chiaro cosa Johnson abbia ottenuto a quell’incrocio: nato in una piantagione del Mississippi, da una famiglia priva di riferimenti stabili, una vita da vagabondo tra bar e balere, la prima moglie morta di parto a 16 anni, lui morto sconosciuto a 27 anni, probabilmente avvelenato. Oltre ad una ventina di canzoni dall’acustica spettrale, rimangono di lui un paio di fotografie di attribuzione dubbia, almeno 3 lapidi che commemorano il suo luogo di sepoltura in 3 luoghi diversi. La vita di Johnson è un monumento alle condizioni disumane in cui la minoranza di colore era costretta a vivere nel Sud segregato di quello che negli anni 20 e 30 era già il paese più ricco del mondo. Fu l’inenarrabile miseria umana e materiale con cui i primi musicisti blues si confrontavano quotidianamente a generare la forza emotiva della loro musica. Le leggende di demoni al crocicchio, per quanto affascinanti, nascondono il vero peccato all’origine del blues: una società che fino a tempi recenti ha tollerato la segregazione razziale su buona parte del proprio territorio.

# 2 AC/DC / Angus Young. Con un pugno di classici del rock costruiti su strutture musicali blues, gli AC/DC sono entrati a far parte dell’esclusivo club dei musicisti che hanno venduto più di 200 milioni di dischi nel mondo. Nei primi anni 80, all’apogeo del loro successo, gli AC/DC si attirarono gli strali della destra cristiana americana che, con l’amministrazione Reagan, cominciava ad acquistare peso politico. I gruppi conservatori vedevano nell’immagine giocosamente diabolica del chitarrista degli AC/DC, Angus Young, un’evidente manifestazione della presunta decadenza dei costumi del tempo. Successo commerciale, prossimità al blues, iconografia luciferina: gli AC/DC sembrano soddisfare i requisiti minimi della band che ha spuntato un buon patto col diavolo. Ma credo manchi un ingrediente fondamentale.

Gli AC/DC sono probabilmente l’unica megaband rock priva di un seguito femminile. Non sono mai stati dei sex symbol, neanche in gioventù, e il fatto che Angus Young, a 54 anni, si presenti ai concerti ancora in divisa da liceale, con le gambe esili e glabre che spuntano dai calzoncini corti, non aiuta gli AC/DC a reclutare nuove fan. I loro testi sono spesso maliziosi, ma di una sensualità adolescenziale e goliardica. Dopo un concerto, immagino gli AC/DC rilassarsi con un paio di partite a ping-pong, non certo a sfasciare camere d’albergo in sordidi festini per groupies. Insomma, gli AC/DC sembrano aver poca dimestichezza con l’ingrediente fondamentale del rock, il sesso. Nessun ragazzo equilibrato pregiudicherebbe qualsiasi possibilità di far colpo su una ragazza ammettendo di ascoltare gli AC/DC. Potrebbe far di peggio solo se confessasse di conoscere a memoria tutti gli episodi di “Start Trek”, oppure di aver partecipato alle competizioni internazionali di “Dungeons & Dragons”. Dubito dunque che il diavolo voglia associarsi ad una band come gli AC/DC, se non altro per mantenere intatta quell’aurea di sensualità e seduzione che la modernità gli ha attribuito.

#1 Led Zeppelin / Robert Plant. In questi tempi senza musicisti dal successo veramente globale, con i gusti musicali frantumati in dozzine di generi, è difficile capire la grandezza dei Led Zeppelin nei primi anni 70. Furono i soli ad avvicinarsi ai Beatles per impatto culturale e successo commerciale. Attingendo a piene mani dalla tradizione musicale del blues, i Led Zeppelin indurirono il rock dando origine ad un suono che si sarebbe poi disperso nei mille rivoli del metal. La band aveva un’infatuazione per l’esoterismo, che spesso affiorava dai testi delle loro canzoni e dalla simbologia sulle copertine dei loro dischi. Il chitarrista Jimmi Page era un fanatico dell’occulto, arrivando a collezionare diversi oggetti rituali appartenuti al celebre satanista inglese Aleister Crowley, oltre che ad acquistarne l’abitazione sulle rive di Lock Ness. Se ci sono musicisti rock che possono vantare una certa intimità con il diavolo, questi sono dunque i Led Zeppelin.

Eppure, agli inizi degli 90, mi imbattei nella prova ontologica che il successo straordinario dei Led non poteva ascriversi ad un patto luciferino. In una domenica pomeriggio, tra una partita a “Dungeon & Dragon” e una replica di un vecchio episodio di “Star Trek”, mi sintonizzai sul mio canale TV preferito di allora, Videomusic, una piccola MTV italiana che trasmetteva video musicali a rotazione, interrotti da qualche programma adolescenziale. La punta di diamante della programmazione di Videomusic era un varietà condotto da Red Ronnie, un giornalista musicale che in piena Tangentopoli ebbe l’acume politico di presentarsi alle elezioni in lista per il Partito Socialista.

Quella domenica nel programma di Red Ronnie irrompe Robert Plant, il glorioso cantante dei Led, per promuovere il suo ultimo disco solista. Nel 73 il front man del maggior gruppo del pianeta mandava in estasi mistica migliaia di groupies accalcate al Madison Square Garden; vent’anni dopo lo stesso uomo, per piazzare qualche disco, si avventura fino agli studi in provincia di Lucca di un’oscura TV locale, si assoggetta ad una goffa intervista di Red Ronnie, si esibisce infine in una scenografia da recita parrocchiale, che Jimmi Page avrebbe fatto esplodere anche solo accordando la sua Les Paul. Capii quel giorno che i Led non potevano aver fatto un patto col diavolo. Oppure, se mai l’avessero siglato, stavano già iniziando a pagare il prezzo del loro smisurato successo giovanile. Forse l’intuizione gnostica che l’inferno è su questa terra ha un fondo di verità e per Rober Plant l’inferno si trovava in uno studio televisivo di Castelvecchio Pascoli, provincia di Lucca.

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