domenica 6 settembre 2009

Alba Nera

E anche quest’anno, con la fine dell’estate, viene annunciato un nuovo tour di Vasco Rossi. I suoi mega-concerti sono ormai eventi a cadenza quasi annuale, ineluttabili come le feste comandate. Fino a qualche tempo fa, il lancio di un nuovo disco serviva come pretesto per chiamare a raccolta i fan – ora il tour viene annunciato senza neanche la finzione di nuove canzoni.

Artisticamente Vasco Rossi è più prosciugato del lago di Aral, non pubblica un disco ascoltabile da “Liberi Liberi” dell’89. Da vent’anni è impegnato in un tour semi-permanente che a ogni data ripropone la stessa scaletta di canzoni, suonate dagli stessi musicisti, con gli stessi arrangiamenti. Una dannazione di Sisifo, ma straordinariamente profittevole: Vasco Rossi è il solo cantante in grado di riempire arene di qualunque capacità, in qualsiasi città italiana, anno dopo anno - intorno a lui si muove una piccola economia fatta di organizzatori di eventi, imprese logistiche e musicisti che trovano nei suoi concerti un’importante fonte di reddito.

Nell’83, l’allora outsider Vasco Rossi ebbe l’impertinenza di presentarsi a San Remo con la canzone “
Vita Spericolata”. Si classificò ultimo, confermando la propria fama di autore talentuoso ma di nicchia. Negli anni a seguire le cose in Italia sono tanto cambiate che “Vita Spericolata” è diventata la canzone preferita dall’attuale Presidente del Consiglio. E con ragione: Vasco Rossi rappresenta il paese meglio di qualunque altro musicista.

Vasco Rossi è l’espressione musicale della rendita, il musicista che non si prende rischi artistici, che ripropone canzoni che non deve neanche sforzarsi di cantare, perché il suo pubblico le conosce già a memoria – rappresenta l’analogo in musica dell’imprenditore italiano che esce dai settori esposti alla concorrenza per acquistare interessi in autostrade e in altri monopoli. I concerti di Vasco Rossi sono un’eterna rievocazione del passato, ormai tanto lontano che le approssimazioni della memoria fanno sembrare più semplice e accogliente di questi anni.

Ma Vasco Rossi non ha colpe, se non quella di offrire quanto i suoi fan continuano a chiedergli. E poi, se i
Rolling Stones oppure gli Who organizzavano tour per riproporre il loro vecchio catalogo negli Stati Uniti – cosa c’è di insolito in un artista italiano che fa lo stesso?

Eppure qualcosa di insolito nei concerti di Vasco Rossi c’è – e sta nella demografia delle persone che vi partecipano. I concerti degli Stones sono malinconici raduni per baby-boomers, che rimpiangono di non aver contemplato
Jagger & Richards all’apice della loro potenza, magari perché impegnati a completare gli esami universitari. Invece buona parte del pubblico ai concerti di Vasco Rossi è costituita da teenager e ventenni, che si accalcano sugli spalti a fianco di spettatori che hanno il doppio della loro età. E’ la capacità di attirare le nuove generazioni che permette a Vasco Rossi di riempire ancora gli stadi, a più di trent'anni dagli esordi.

Se io dovessi definire il rock con una sola parola questa sarebbe “scandalo”. La migliore musica ascoltata dai giovani occidentali suona scandalosa alle generazioni più vecchie, perché è tanto innovativa da non poter essere inquadrata nelle categorie culturali dell’establishment. La musica giovanile aiuta a separare le generazioni dei padri da quelle dei figli, dando una specifica identità a chi la ascolta. Solo percependosi come generazione diversa dalla precedente, può una nuova generazione distanziarsi dal mondo dei genitori, prenderne coscienza dei problemi e diventare potenziale forza di cambiamento; il suo intervento genererà altri problemi, che però potranno essere riconosciuti come tali dalla generazione successiva, se questa avrà un’identità sufficientemente autonoma.

Trovo dunque inquietante la commistione di generazioni tra il pubblico di Vasco Rossi – i figli che cantano a memoria le canzoni che non appartengono alla propria gioventù, ma a quella dei loro genitori. I ragazzi che seguono Vasco Rossi nei suoi tour non sembrano interessati a definire una propria identità musicale, a scoprire nuovi musicisti e a portarli al successo. Trovano più confortante affidarsi ad un musicista che canta ribellioni fasulle per celebrare un’immobilità di fatto.

L’establishment italiano cerca di mantenere potere e privilegi, come in qualsiasi altra nazione. Ma il suo migliore alleato, il vero responsabile dell’inerzia del paese, è la gioventù italiana, che non cerca cambiamento ma co-optazione, un posto sugli spalti a fianco dei genitori per ascoltare il mitico Vasco. L’Italia di oggi avrebbe potuto essere un paese migliore, se i giovani degli anni 90 avessero riempito San Siro per ascoltare gli Afterhours; invece ci andavano solo per Vasco Rossi. L’Italia potrebbe cambiare tra dieci anni, se i giovani di oggi accorressero all'Olimpico per vedere i Linea 77. Ma ci vanno ancora per Vasco Rossi: il cantore ufficiale di una gerontocrazia stanca come i suoi concerti, logora come le sue canzoni.

domenica 14 giugno 2009

Patti Infranti

La musica popolare ha i suoi miti fondativi. Uno dei più persistenti vuole che gli artisti seminali del blues e del rock abbiano ceduto la loro anima al diavolo, in cambio di talento musicale e successo terreno. Questo post vuole scagionare alcuni musicisti sospettati di aver forgiato un patto demoniaco – o quantomeno difenderne la buona fede perché, se avessero veramente venduto la loro anima, sarebbero caduti vittime di un raggiro, considerato quanto poco hanno ottenuto in cambio:

# 3 Robert Johnson. I patriarchi del blues sono personaggi dai contorni biblici, con dati anagrafici incerti e capacità artistiche soprannaturali. Il giardino dell’Eden del blues è un remoto incrocio nello stato del Mississippi, dove secondo la leggenda un giovane chitarrista senza talento, Robert Johnson, avrebbe incontrato uno sconosciuto che si offrì di accordargli la chitarra. Accettando l’offerta Johnson rinunciò all’anima ma acquisì la sapienza del blues – la straordinaria capacità di comunicare la propria tristezza con la musica.

Johnson raggiunse la fama diversi decenni dopo la morte, quando alcune sue fortuite registrazioni risalenti agli anni 30 furono riscoperte dai grandi chitarristi inglesi degli anni 60. A parte una buona accordatura, non è dunque chiaro cosa Johnson abbia ottenuto a quell’incrocio: nato in una piantagione del Mississippi, da una famiglia priva di riferimenti stabili, una vita da vagabondo tra bar e balere, la prima moglie morta di parto a 16 anni, lui morto sconosciuto a 27 anni, probabilmente avvelenato. Oltre ad una ventina di canzoni dall’acustica spettrale, rimangono di lui un paio di fotografie di attribuzione dubbia, almeno 3 lapidi che commemorano il suo luogo di sepoltura in 3 luoghi diversi. La vita di Johnson è un monumento alle condizioni disumane in cui la minoranza di colore era costretta a vivere nel Sud segregato di quello che negli anni 20 e 30 era già il paese più ricco del mondo. Fu l’inenarrabile miseria umana e materiale con cui i primi musicisti blues si confrontavano quotidianamente a generare la forza emotiva della loro musica. Le leggende di demoni al crocicchio, per quanto affascinanti, nascondono il vero peccato all’origine del blues: una società che fino a tempi recenti ha tollerato la segregazione razziale su buona parte del proprio territorio.

# 2 AC/DC / Angus Young. Con un pugno di classici del rock costruiti su strutture musicali blues, gli AC/DC sono entrati a far parte dell’esclusivo club dei musicisti che hanno venduto più di 200 milioni di dischi nel mondo. Nei primi anni 80, all’apogeo del loro successo, gli AC/DC si attirarono gli strali della destra cristiana americana che, con l’amministrazione Reagan, cominciava ad acquistare peso politico. I gruppi conservatori vedevano nell’immagine giocosamente diabolica del chitarrista degli AC/DC, Angus Young, un’evidente manifestazione della presunta decadenza dei costumi del tempo. Successo commerciale, prossimità al blues, iconografia luciferina: gli AC/DC sembrano soddisfare i requisiti minimi della band che ha spuntato un buon patto col diavolo. Ma credo manchi un ingrediente fondamentale.

Gli AC/DC sono probabilmente l’unica megaband rock priva di un seguito femminile. Non sono mai stati dei sex symbol, neanche in gioventù, e il fatto che Angus Young, a 54 anni, si presenti ai concerti ancora in divisa da liceale, con le gambe esili e glabre che spuntano dai calzoncini corti, non aiuta gli AC/DC a reclutare nuove fan. I loro testi sono spesso maliziosi, ma di una sensualità adolescenziale e goliardica. Dopo un concerto, immagino gli AC/DC rilassarsi con un paio di partite a ping-pong, non certo a sfasciare camere d’albergo in sordidi festini per groupies. Insomma, gli AC/DC sembrano aver poca dimestichezza con l’ingrediente fondamentale del rock, il sesso. Nessun ragazzo equilibrato pregiudicherebbe qualsiasi possibilità di far colpo su una ragazza ammettendo di ascoltare gli AC/DC. Potrebbe far di peggio solo se confessasse di conoscere a memoria tutti gli episodi di “Start Trek”, oppure di aver partecipato alle competizioni internazionali di “Dungeons & Dragons”. Dubito dunque che il diavolo voglia associarsi ad una band come gli AC/DC, se non altro per mantenere intatta quell’aurea di sensualità e seduzione che la modernità gli ha attribuito.

#1 Led Zeppelin / Robert Plant. In questi tempi senza musicisti dal successo veramente globale, con i gusti musicali frantumati in dozzine di generi, è difficile capire la grandezza dei Led Zeppelin nei primi anni 70. Furono i soli ad avvicinarsi ai Beatles per impatto culturale e successo commerciale. Attingendo a piene mani dalla tradizione musicale del blues, i Led Zeppelin indurirono il rock dando origine ad un suono che si sarebbe poi disperso nei mille rivoli del metal. La band aveva un’infatuazione per l’esoterismo, che spesso affiorava dai testi delle loro canzoni e dalla simbologia sulle copertine dei loro dischi. Il chitarrista Jimmi Page era un fanatico dell’occulto, arrivando a collezionare diversi oggetti rituali appartenuti al celebre satanista inglese Aleister Crowley, oltre che ad acquistarne l’abitazione sulle rive di Lock Ness. Se ci sono musicisti rock che possono vantare una certa intimità con il diavolo, questi sono dunque i Led Zeppelin.

Eppure, agli inizi degli 90, mi imbattei nella prova ontologica che il successo straordinario dei Led non poteva ascriversi ad un patto luciferino. In una domenica pomeriggio, tra una partita a “Dungeon & Dragon” e una replica di un vecchio episodio di “Star Trek”, mi sintonizzai sul mio canale TV preferito di allora, Videomusic, una piccola MTV italiana che trasmetteva video musicali a rotazione, interrotti da qualche programma adolescenziale. La punta di diamante della programmazione di Videomusic era un varietà condotto da Red Ronnie, un giornalista musicale che in piena Tangentopoli ebbe l’acume politico di presentarsi alle elezioni in lista per il Partito Socialista.

Quella domenica nel programma di Red Ronnie irrompe Robert Plant, il glorioso cantante dei Led, per promuovere il suo ultimo disco solista. Nel 73 il front man del maggior gruppo del pianeta mandava in estasi mistica migliaia di groupies accalcate al Madison Square Garden; vent’anni dopo lo stesso uomo, per piazzare qualche disco, si avventura fino agli studi in provincia di Lucca di un’oscura TV locale, si assoggetta ad una goffa intervista di Red Ronnie, si esibisce infine in una scenografia da recita parrocchiale, che Jimmi Page avrebbe fatto esplodere anche solo accordando la sua Les Paul. Capii quel giorno che i Led non potevano aver fatto un patto col diavolo. Oppure, se mai l’avessero siglato, stavano già iniziando a pagare il prezzo del loro smisurato successo giovanile. Forse l’intuizione gnostica che l’inferno è su questa terra ha un fondo di verità e per Rober Plant l’inferno si trovava in uno studio televisivo di Castelvecchio Pascoli, provincia di Lucca.

lunedì 25 maggio 2009

Titoli


Ci sono band che affascinano per le loro canzoni (Libertines), altre per personaggi e storie (Joy Division), altre ancora per l'impatto sulla cultura del loro tempo (Stone Roses). I Ramones erano tutto questo.

Le loro canzoni: fragorosi inni sotto i tre minuti di durata e sotto i tre accordi di chitarra.

I membri della band: stesso cognome fasullo (Ramone, malgrado l'assenza di qualsiasi parentela), stessa divisa minimal (skinny jeans, giacca in pelle) ma poco altro in comune (cantante ebreo e chitarrista dichiaratamente antisemita).

Impatto culturale: responsabili della fondazione del punk, della liberazione del pianeta dalla musica progressive e del ritorno del rock all’immediatezza espressiva delle origini.

Ma la cosa che più mi diverte dei Ramones sono i titoli delle loro canzoni, soprattutto quelle dei loro primi dischi. Alcuni dei loro titoli sono tanto dementi da sconfinare nel geniale.

Si inizia con qualche torbida avventura: prima con Suzy (“Suzy is a Headbanger”), poi con Judy (“Judy is a Punk”). Finalmente si trova l’anima gemella (“Sheena is a Punk Rocker”), che cade però vittima di un increscioso incidente (“The KKK Took My Baby Away”).

Per alleviare le sofferenze d’amore, si cerca conforto negli stupefacenti: i primi ingenui trastulli (“Now I Wanna Smell Some Glue”) rapidamente degenerano in dipendenze più gravi (“I Wanna Be Sedated”) fino a diventare comportamenti patologici (“Gimme Gimme Shock Treatment”) cui è possibile porre rimedio solo con interventi invasivi (“Teenage Lobotomy”).

Il lobotomizzato non ha più pieno controllo delle proprie azioni (“Cretin Hop”) e subisce spesso delle reprimende (“You Should Never Have Opened That Door”). Cerca di addurre qualche scusa puerile (“Sobody Put Something in My Drink”) per evitare punizioni severe (“I Don't Wanna Go down to the Basement”), che gli sono comunque inflitte (“Beat on the Brat”).

E pensare che, se non avessero perduto l'amore, i Ramones avrebbero conquistato il mondo (“Today Your Love, Tomorrow the World”), prima lanciando qualche missile (“Rocket to Russia”) e poi con una rapida offensiva di terra (“Blitzkrieg Bop”).

Il quadro clinico che emerge da questi titoli è quello di una band incapace di prendersi sul serio. Con i loro testi socialmente irresponsabili rifiutano qualsiasi impegno, con la semplicità della loro musica rinunciano a qualsiasi ambizione artistica.

I Ramones irridono la pretesa che il rock possa avere un ruolo sociale o delle velleità estetiche – spogliano anzi il rock di ogni presunzione culturale, degradandolo a musica fondamentalmente per idioti. E proprio liberando il rock dalle sue ansie di accettazione borghese, i Ramones danno paradossalmente origine al movimento musicale più politicizzato ed esteticamente consapevole di sempre – il punk.

lunedì 18 maggio 2009

Anniversari


Il 18 maggio del 1980 Ian Curtis – cantante dei Joy Division – guardò un film di Herzog in TV, ascoltò qualche canzone di Iggy Pop sul giradischi e s’impiccò in cucina. Aveva 23 anni.

Il giorno prima aveva cercato, inutilmente, di convincere la moglie Debbie a fermare le procedure di divorzio. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per il primo tour dei Joy Division negli Stati Uniti. Matrimonio e concerti: questi erano i crucci di Ian Curtis in quei giorni.

Ian e Debbie erano compagni di scuola, si sposarono a 18 anni, non c’erano gravidanze cui porre rimedio, era amore puro. Tra i due si mise in mezzo Annik, una ragazza che partecipò ad un concerto dei Joy Division a Bruxelles e che li seguì nelle altre tappe del loro tour europeo. Ian fu sedotto dai suoi profondi occhi neri, dal suo accento francese, dal suo talento per la fotografia e amò anche lei. La moglie Debbie chiese il divorzio.

L’altra preoccupazione erano i concerti. Mentre su vinile Ian cantava con voce profonda e composta, dal vivo spesso emetteva delle grida animali per poi accasciarsi sul palco, con i compagni di band che gareggiavano per frenarne le incaute cadute. Non erano atteggiamenti da rockstar, Ian non fingeva. Una luce strobo troppo intensa, una combinazione insolita di suoni, un gesto inatteso dal pubblico: tutto poteva contribuire a farlo cadere in una crisi epilettica. Concerto dopo concerto, le crisi diventavano sempre più dolorose e frequenti e Ian sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare la band. Fece dunque un patto con i suoi compagni: se qualcuno avesse abbandonato il gruppo, gli altri sarebbero andati avanti ma sotto un nuovo nome.

Al momento della scomparsa di Ian, i Joy Division avevano pubblicato qualche singolo e un solo album. Malgrado il favore della critica, non raggiunsero mai il successo commerciale. L'edizione originale del loro album di esordio, "Unknown Pleasures", vendette 10.000 copie - complice un'etichetta discografica che non aveva sufficienti risorse per stampare un numero adeguato di dischi. Anche la misteriosa copertina del disco forse non aiutò: senza titolo, senza nome della band, un fondo totalmente nero graffiato solo dalla rappresentazione grafica delle radiazioni di una stella morente. Il secondo album - "Closer", registrato poco prima la scomparsa di Ian e pubblicato postumo - fu il tredicesimo disco più venduto in UK nella settimana d'uscita, per poi sparire da ogni classifica di vendita. Eppure questi due dischi raccolgono la migliore musica inglese prodotta a cavallo degli anni 70 e 80. La loro eco si è espansa nei decenni successivi e se gruppi come gli Interpol, gli Editors e, in una certa misura, anche i Killers e i Baustelle sono considerati tra le band di riferimento degli anni 2000, lo sono soprattutto perché ripropongono suoni e temi fondati dai Joy Division.

Il suono dei Joy Division sembra provenire da una spazio asettico, sterilizzato, vagamente inumano. Non c'e' commistione tra strumenti, le loro tracce sonore sono totalmente isolate come per preservare la purezza della composizione. Il suono della chitarra è freddo, affilato, preciso; il più austero tra gli strumenti, il basso, guida le melodie; lo strumento invece più sguaiato, la batteria, è mortificato in ritmiche geometriche. E poi c'è la voce di Ian: naturalmente baritonale, resa ancora più profonda dagli echi di studio, sembra provenire dal pulpito di un'immensa cattedrale gotica.

I testi di Ian evocano periferie eternamente battute dalla pioggia, esaminano i danni del trascorrere del tempo, ma soprattutto rivelano l'evoluzione dell'equilibrio mentale del cantante - irrimediabilmente alterato già ai tempi delle registrazioni di Closer. Annik, ascoltando gli inquietanti testi dell'album, sospettò il peggio e cercò di allertare gli altri Joy Division. Ma Ian la sua scelta l'aveva forse già fatta e il giorno più appropriato per metterla in pratica era proprio il 18 maggio - tra un tentativo fallito di ricomporre il matrimonio e la partenza per un tour che avrebbe causato inenarrabili sofferenze fisiche. Alla moglie Debbie lasciò un messaggio, chiedendone il perdono; ai fan dei Joy Division, lasciò invece "The Eternal", una delle canzoni che chiude "Closer":

Procession moves on, the shouting is over,
Praise to the glory of loved ones now gone.
Talking aloud as they sit round their tables,
Scattering flowers washed down by the rain.

Stood by the gate at the foot of the garden,
Watching them pass like clouds in the sky,
Try to cry out in the heat of the moment,
Possessed by a fury that burns from inside.

I compagni di band seppero del suicidio quando già erano all'aeroporto di Manchester, in partenza per la prima data del loro tour americano. Decisero di non imbarcarsi: i Joy Division non suonarono mai negli Stati Uniti e non avrebbero più suonato in nessun altro paese. Per comprendere l’entità della ricchezza musicale perduta, basta considerare quanto realizzarono gli altri membri dei Joy Division, anche senza il loro compagno più carismatico.

Continuarono a fare musica insieme e, come promesso a Ian, adottarono un nuovo nome, New Order. E un Nuovo Ordine fu, radicalmente diverso dal precedente: sostituirono il rock cupo dei Joy Division con un electropop a volte persino solare, diventando una delle band inglesi più popolari ed influenti degli anni 80. Ma non erano solo i tempi a determinare una svolta verso suoni e temi più leggeri; forse c’era anche la volontà di confortare con una musica più luminosa l’anima tormentata del ragazzo che li aveva abbandonati.

giovedì 30 aprile 2009

"This is the One"


Chiedere la band preferita ad un appassionato di musica, è come chiederne l’età. Se risponde gli Smiths, allora è nato dopo il 1964 ma prima del 69; se risponde i Pearl Jam, allora è nato tra il 74 e il 79; se invece sono gli Arctic Monkeys, allora è nato tra l’87 e il 92.

La musica pop è diversa da ogni altra forma d’arte, anche dalla musica “colta”, per la vocazione generazionale dei suoi stili e dei suoi artisti. Le preferenze musicali di una persona tendono a formarsi nella tarda adolescenza, tra i 15 e i 20 anni. In questo stesso periodo di solito emergono tre-quattro musicisti che con le loro canzoni e i loro atteggiamenti determinano i gusti musicali del tempo. Tra questi artisti un ragazzo identifica i suoi preferiti, quelli che più l’aiutano a definire la sua identità. Da adulto scoprirà altri musicisti, si aprirà ad altri generi musicali, ma tutto verrà misurato sul metro delle grandi band seguite da ragazzo.

La mia personale epifania musicale arrivò nell’89, quando ascoltai una canzone di un gruppo di Manchester, the Stone Roses. Si intitolava “Fool’s Gold” ed era diversa da qualsiasi cosa avessi sentito fino ad allora. A renderla unica era la capacità di unire in sé le due culture dominanti del pop, quella che andava ai concerti per ascoltare il rock e quella che andava nei club per ascoltare i dj. Da ragazzino ero attratto da entrambi questi mondi, senza preferire definitivamente uno dei due. Fui dunque attratto dal tentativo degli Stone Roses di tracciare una terza via e li elessi a mio gruppo preferito.

Erano una miscela di talenti straordinari: il batterista Reni era una drum-machine umana, una sorgente inesauribile di groove che impediva all’ascoltatore di rimanere fermo; il chitarrista John Squire era l’anima rock del gruppo, non suonava per accordi ma per assoli, spesso tracciando una linea melodica alternativa al cantato; il bassista Mani oscillava tra la batteria di Reni e le chitarre Squire, spostando l’equilibrio delle canzoni ora sul versante rock, ora su quello dance; il cantante Ian Brawn, con i suoi testi evocativi e la sua voce indolente aggiungeva infine un tocco onirico, diciamo pure fatto, alle loro canzoni.

Non era solo il talento a rendere gli Stone Roses unici: era anche la loro sfrontatezza nei confronti media; la loro ambiguità verso le nuove droghe chimiche; il rigore formale delle copertine dei loro singoli. La sintonia degli Stone Roses con una gioventù ansiosa di sbarazzarsi degli anni ’80 era totale: per dirla con una loro canzone, “Kiss me where the sun don’t shine / The past was yours / But the future’s mine”.

L’atto di fondazione della musica inglese anni 90 fu l’uscita del loro primo album. Vent'anni dopo la sua pubblicazione, l’album eponimo degli Stone Roses è ancora considerato uno dei migliori dischi inglesi di sempre. Il Brit Pop anni 90 (Blur, Suede, Oasis) trova la sua origine in questa raccolta di canzoni e anche la musica elettronica vicina alla scena rave (Chemical Brothers, Prodigy) ne sarà influenzata.

Il disco era pubblicato su una piccola etichetta indipendente – la Silvertone – ma alle grandi case discografiche non sfuggì che gli Stone Roses riuscirono a vendere 300.000 copie anche negli Stati Uniti, senza neanche metterci piede. La Geffen propose agli Stone Roses un contratto discografico che riservava loro un trattamento economico da vere rockstar - quali loro si ritenevano. Senza indugiare in approfondimenti legali, la band si impegnò a pubblicare i prossimi 5 album con la Geffen, a fronte di un anticipo di $20m.

Ma nei successivi 5 anni non pubblicarono neanche una canzone. La loro vecchia casa li aveva denunciati, impedendogli di registrare nuovi pezzi. Uscirono con il loro secondo - e ultimo - disco solo nel 95. Era scritto quasi interamente dal chitarrista Squire e si sentiva: un rock grezzo e desolato dominava l'intera raccolta, rompendo l'equilibrio tra stili delle loro prime canzoni. Fu un disastro commerciale. La loro finestra generazionale si era definitivamente chiusa, i loro vecchi fan li avevano ormai dimenticati, i ragazzi più giovani non li avevano mai conosciuti. Gli Stone Roses erano diventati culturalmente irrilevanti. La band si sciolse a pochi mesi dall’uscita del disco: il cantante Brown avviò una mediocre carriera solista mentre il chitarrista Squire – già autore delle copertine di tutti i loro dischi – si dedicò totalmente alla pittura.

In sette anni di carriera avevano pubblicato in tutto una dozzina di grandi canzoni – concentrate nei 12-18 mesi tra i primi singoli e il loro album di esordio. Ascoltarli in quel breve periodo significava sentirsi parte di un grande rinnovamento musicale e non solo. Il mondo nell’89 stava cambiavano, se la rivoluzione fasulla del 68 aveva avuto Sgt. Pepper come colonna sonora, le rivoluzioni vere dell’89 si meritavano anche di meglio – e gli Stone Roses sembravano gli eletti, gli unici musicisti in grado di cogliere lo spirito del loro tempo e metterlo in musica.

Non fu così – e tutto quello che sarebbe poi accaduto era già evidente nella loro prima, leggendaria apparizione televisiva dell’89. Squire arpeggia l'apertura di "Made of Stone", Reni spalma i suoi loop sulla batteria, Brown sta per arrivare al ritornello – quando un’improvvisa interruzione dell’elettricità impedisce loro di completare la canzone. A Ian Brown non resta che imprecare contro i tecnici dello studio per non aver permesso alla band di esprimersi.

Una decina di anni dopo la loro infelice comparsa televisiva mi trovavo in un aeroporto, ingannando l’attesa per l’imbarco in un edicola. Mi imbattei in una rivista inglese, mi pareva fosse Face, credo ormai sparita pure quella. Sulla copertina c’era un adulto, con in braccio un bimbo e sopra di loro un titolo: “Dad, who were the Stone Roses?”. Quello fu il primo giorno della mia vita in cui mi sentii vecchio.

sabato 18 aprile 2009

"The Man Who Would Be King"


E' la prima casa che compri. E' in un edificio in mattoni rossi al 112A di Teesdale Street, ad est della nella zona 2 di Londra, poco sopra Whitechapel. Ci hai messo tutti i tuoi risparmi, dopo anni di lavoro e sacrifici. Hai fatto pure un mutuo. Ti trasferisci con la moglie e il bambino, che va a scuola da un paio di anni. Dopo tre mesi dal tuo trasloco, arriva una coppia di ragazzi, che condividono l'appartamento sopra al tuo, al secondo piano. Si sono presentati come Carl e Peter, ma sul loro citofono hanno scritto Albion Rooms”. Non ci sono mai durante il giorno, tornano a notte tarda, sempre ubriachi, trascinandosi sulle scale. Uno dei due, credi sia Peter, è solito ad annunciare il suo rientro vomitando sulle scale. Tua moglie non riesce più a dormire.

Cominciano però a passare più tempo in casa. Cominciano a dare feste, ad invitare amici, tutta gente giovane, molte ragazze, alcune veramente carine. Tu non riesci più a dormire. Cominciano a portarsi in casa chitarre e batterie. Cominciano a dare concerti nel mezzo della notte, tanto rumore che a volte ti sembra di avere un treno che passa in cucina. Il tuo bambino non riesce più a dormire. Chiami la polizia, intimano agli inquilini sopra di te di sospendere le loro feste. Ma i concerti continuano, sempre più rumorosi, sempre più affollati. Vorresti cercare casa altrove, ma in queste condizioni come puoi vendere il tuo appartamento? Ad ogni ora del giorno e della notte le strada davanti casa è gremita di ragazzi venuti per vedere suonare i tuoi vicini, sporcizia e bottiglie ovunque, a volte anche preservativi sul marciapiede. Poi vedi un paio di siringhe. Chiami ancora la polizia, questa volta arrivano durante un concerto, si fanno strada tra ragazzi fatti e ubriachi e finalmente, per la prima volta, riescono a fermare il concerto, sequestrano parte dell'attrezzatura, mandano tutti a casa. Non possono comunque sfrattare Carl e Peter, pagano regolarmente il loro affitto.

Peter si fa vedere di meno. Anzi dopo un po' sparisce, ora sembra che sopra sia rimasto solo Carl. Niente più concerti, sempre meno persone. Anche Carl comincia a farsi vedere di meno. Una sera, sei appena tornato a casa dal lavoro, quando senti dei rumori violenti nell'appartamento di sopra. Ti sporgi dalla scala, vedi che hanno sfondato la porta per entrare nella casa di Carl. Sono dei ladri, senza dubbio, chiami ancora la polizia, arrivano subito, ormai conoscono bene il posto. Arrestano un uomo, stava cercando di portarsi via una vecchia chitarra e un laptop. Ti affacci alla finestra mentre i poliziotti lo caricano sulla loro auto e lo riconosci subito: è Peter, tornato per rubare a casa dell'amico.

La settimana dopo sei in metropolitana per andare il lavoro, alla stazione di Bethnal raccogli una copia di Metro e lo vedi ancora, vedi ancora Peter in una foto enorme sulla prima pagina con sopra il titolo: “Libertine Pete Doherty Sentenced to 6 Months in Prison for Breaking into Bandmate Carl Barat's Flat”. Ti rendi conto che non hai mai capito chi ha vissuto sopra di te.

L'articolo parla della band di Carl e Peter, si facevano chiamare “the Libertines” e si erano fatti conoscere proprio grazie ad una serie di concerti rissa nel loro appartamento. Il loro secondo album, appena pubblicato, viene descritto come un classico del rock inglese degli anni 2000. L'articolo dice anche che Carl e Peter, dopo aver terminato le registrazioni del disco, si sono separati sciogliendo il gruppo. Malgrado il giornale definisca i Libertines come la band inglese più influente degli ultimi anni, capisci subito che per la tua famiglia è la fine di un incubo.

La sera torni a casa, parlano ancora di quei due delinquenti in televisione, li descrivono come se fossero dei musicisti prodigio. Sospettavi che il peggiore tra i due fosse quello che vomitava sulle scale, ora la TV ti dà finalmente ragione: Peter sta sistematicamente censendo tutti gli stupefacenti ad oggi conosciuti, oltre che a sintetizzarne di nuovi. Le droghe svuotano Peter di ogni talento, trasformando un ragazzo che avrebbe potuto essere il re dei musicisti della propria generazione in una celebrità buona sola per i giornali di pettegolezzi. Sono stati i suoi eccessi a portare i Libertines allo sfascio. Ora ognuno per la sua strada e la strada di Peter passa per i più esclusivi centri di disintossicazione della Gran Bretagna e della Tailandia.

*****
Sono passati cinque anni, è il 2009, vivi ancora nella casa di mattoni rossi di Teesdale Street. Tuo figlio ha 14 anni, quando è in casa si rinchiude nella sua camera, attaccato al laptop per chattare con gli amici. Ha sempre le cuffie dell'iPod in testa, ogni tanto però attacca il lettore alle casse e a volte ti sembra di sentire una canzone familiare: sì, sei sicuro di averla già sentita, ma non alla radio, non in televisione, ma nella tua cucina, in una delle tanti notti che Carl e Peter ti facevano passare insonne. Ti rendi conto che quella canzone non era poi male, ora che puoi sentirla senza avere addosso un pigiama. E ti domandi allora che fine abbiano fatto quei due, una volta sempre assieme, inseparabili, sempre a far casino.

venerdì 10 aprile 2009

“Equally Cursed & Blessed”


Il calciatore nord irlandese George Best ha sempre occupato un posto privilegiato nell’immaginario rock britannico, e non solo per aver dato il titolo all’album di esordio dei Wedding Present ed essere stato omaggiato con un ritratto sulla copertina di “Definitely Maybe” degli Oasis.

Per dirla con il titolo di un disco ormai dimenticato, Best rappresenta l’archetipo dell’artista “Equally Cursed & Blessed”, il talento soprannaturale che in una scellerata corsa all’eccesso brucia il proprio potenziale ancora prima di esprimerlo pienamente.

Pur essendo considerato uno dei migliori calciatori di sempre, Best vanta un palmares piuttosto esiguo, interamente raccolto con un’unica squadra, il Manchester United. A sua parziale difesa c’è da dire che neanche Pelè sarebbe riuscito a vincere i Mondiali nella nazionale dell’Ulster. Ma la carriera sportiva di Best è pervasa da un senso di incompiutezza. A soli 20 anni, conducendo il Manchester alla vittoria in Champions League e conquistando il Pallone d’Oro, Best dimostra di essere il talento calcistico più promettente della sua generazione.

Lo stile di vita da rockstar, pur guadagnandogli l’appellativo di “Quinto Beatle”, diventa comunque inconciliabile con la disciplina dello sport. Dovendo scegliere tra il pallone e la bottiglia, Best non ha dubbi e a 27 anni abbandona il Manchester e, in sostanza, il calcio professionistico. Le maggiori soddisfazioni fuori dal campo arriveranno dai 3 figli, avuti da 3 donne diverse, dall’alcol, che gli distruggerà 2 fegati, e dall’intitolazione postuma del prestigioso "George Best Belfast City Airport". Ma il successo più duraturo per Best sarà la sua canonizzazione a santo patrono del rock britannico. In questa veste Best diventa la figura di riferimento per tutti quei musicisti incapaci di conciliare la loro musa con la disciplina mentale e l’astuzia commerciale richieste dal successo.

Il passato del rock britannico è disseminato di figure che hanno “george-bested it”: artisti geniali che avrebbero sbaragliato con disinvoltura ogni competizione se solo non si fossero smarriti nelle droghe pesanti, nelle postille dei contratti discografici, nelle pieghe di personalità troppo fragili. Il loro ricordo ancora infiamma comunità di fan, custodi di un universo parallelo dove l’oggetto del loro culto – non più vittima di un destino cinico e baro – rivaleggia con i Beatles in grandezza assoluta, così come Best eclissa Maradona in un mondo dove non esistono superalcolici.

Nei prossimi post racconterò di tre band inglesi che, come George Best, non sono riuscite realizzare le attese alimentate dai loro straordinari esordi:

2001-2004: The Libertines

1988-1995: The Stone Roses

1978-1980: Joy Division