venerdì 27 marzo 2009

Musica Italiana – Indipendente?


Penso che ormai il pubblico si sia accorto che non c'è differenza tra major e indipendente. Sono cose, secondo me, molto vicine ad un retaggio di sinistra un po' partitico: l'idea dell'impegno, fatto alla vecchia, quindi noioso, pedante, da cineforum polacco…

Federico Dragogna dei Ministri, intervista a Rockit

I Ministri sono tra i pochi gruppi italiani che si sono assunti l’onere di descrivere la deriva sociale ed economica del paese. Con il loro rock grezzo, testi militanti, disprezzo orgoglioso delle scene musicali più modaiole, i Ministri attirano naturalmente un pubblico di ascoltatori intransigenti, spesso vicino ai centri sociali.

E a questo pubblico non sembra andare giù che i Ministri – a soli due anni dall’esordio “I Soldi Sono Finiti” su etichetta indipendente – abbiano da poco pubblicato il loro secondo album “Tempi Bui” per la major Universal. Il gruppo rilascia interviste a televisioni musicali, le loro musica è arrivata sulle grandi radio commerciali. Dopo aver urlato contro il sistema, i Ministri sembrano dunque esserne diventati parte.

Si può discutere sul valore artistico di “Tempi Bui”. Non è un capolavoro, la qualità dei pezzi è scostante, manca la rabbia e l’urgenza degli esordi. Ma come ritratto rock dell’Italia 2009 circa, “Tempi Bui” non ha rivali. Non ha senso sminuirne la rilevanza perché viene distribuito dalla stessa casa discografica di Marco Masini. Chi crede che i Ministri – cercando di raggiungere un pubblico più vasto – abbiano contaminato l’integrità del loro messaggio, vorrebbe segregare la buona musica in un ghetto, da dove compiacersi della superiorità dei propri gusti musicali rispetto a quelli delle masse.

Un contratto discografico decente ha messo a disposizione dei Ministri i mezzi per superare i limiti espressivi del loro primo album e ha permesso al grande pubblico di conoscere una delle band italiane più promettenti degli ultimi anni. E poi, cosa può esserci di più eversivo che far atterrare sull’autoradio di una mamma, mentre porta i bimbi a scuola sul suo SUV, un pezzo come questo? La speranza è di vedere presto i Ministri a San Remo.

venerdì 20 marzo 2009

Giulia Ascoltava i Chicane


Qualche giorno fa ho visto “Giulia non Esce la Sera”, l’ultimo film di Giuseppe Piccioni. Si è parlato molto della colonna sonora curata dai Baustelle, che nel brano finale Piangi Roma duettano con Valeria Golino mettendone in luce un insospettato talento da chanteuse.

Ancor più mi ha sorpreso sentire nel film una canzone inglese fine anni novanta, di un autore che non ha mai avuto grande seguito in Italia. Mi riferisco a No Ordinary Morning dei Chicane. La cosa curiosa – non so quanto intenzionale - è come il testo e il video originale di questa canzone evochino sofferenze simili a quelle che Giulia racconta di aver vissuto nel proprio passato.

Sebbene sia difficile intuirlo da “No Ordinary Morning”, i Chicane sono tra i padri fondatori della musica trance/chill-out. Qualsiasi persona udente che abbia passato una serata estiva nella Ibiza della seconda metà degli anni novanta, si è imbattuta in un pezzo dei Chicane – di solito venivano suonati dai club più vicini alle spiagge, quando la notte cominciava ad albeggiare. Nick Bracegirdle – l’autore che si celava dietro al nome Chicane – aveva la singolare capacità di creare le atmosfere sonore su cui si sarebbero poi impigliati i ricordi dell’estate.

La musica dei Chicane restituisce nitidezza a momenti del passato, non importa quanto lontano. Il loro pezzo più seducente, Offshore riporta sempre nel luogo dove l’hai sentito la prima volta, distante da casa, distante dal quotidiano: “offshore”, appunto. Bracegirdle ti immerge in uno spazio sonoro sconfinato, dove i ricordi si dispiegano fino a diventare ipotesi di una vita diversa: ti domandi quali altri luoghi, quali altre persone, se solo quell’estate fosse finita diversamente… e ti lasci imprigionare nel tuo passato finché, finalmente, ti accorgi di esser stato stregato dal malizioso incantesimo di Bracegirdle, dai suoi tentativi di creare dipendenza per la sua musica rendendola inseparabile dalla tua storia.

I Chicane hanno costruito la loro fortuna intrappolando i loro ascoltatori nel ricordo di un’eterna estate. L’inclusione di un loro pezzo in “Giulia non Esce la Sera” arricchisce il film di una sfumatura imprevista, di un’involontaria eco alle vicende di una donna prigioniera – anche fisicamente – del proprio passato.

martedì 17 marzo 2009

“Emo’s Hall of Shame”: Il Peggio dell’Emo (Parte 3/3)


Molti gruppi mainstream emo – trovandosi più a loro agio con l’eyeliner che con la chitarra – producono musica di modesta qualità. La mia lista di band da evitare:

#3: Fall Out Boy. Tra le band più sopravvalutate degli ultimi anni. Ogni album che pubblicano viene puntualmente proclamato come il migliore della loro carriera: chi li ha seguiti, ha potuto dunque assistere ad una sequenza di dischi che da inascoltabili sono gradualmente diventati mediocri. Il merito del loro successo commerciale è soprattutto del bassista Pete Wentz, forse la figura che più ha contribuito all’evoluzione dell’emo da movimento indi a fenomeno mainstrem. Lavorando come talent scout per l’etichetta discografica Fueled by Ramen, Wentz ha costruito negli anni un ecosistema di gruppi affini, che si promuovono a vicenda sfruttando le rispettive comunità di fan. Il personaggio si è parzialmente redento dalla propria mediocrità introducendo i Panic! at the Disco al grande pubblico.

#2: 30 Seconds to Mars. Requiem for a Dream è tra i miei film preferiti di sempre. Perché il protagonista Jared Letho continui a trascurare le proprie (notevoli) capacità d’attore per coltivare il proprio (scarso) talento musicale, rimane un mistero che non riesco a spiegarmi. Come frontman dei 30 Second to Mars, Letho da voce a canzoni totalmente derivative, che si dissolverebbero nell’oblio immediato – se non fossero promosse da una comunità di fan, the Echelon, integralista perfino per gli standard emo.

#1: Band emo italiane. L’Italia vanta una gloriosa tradizione di cloni nazionali costruiti a tavolino per cavalcare fenomeni musicali esteri, a partire dai Ricchi & Poveri (gli ABBA di Genova) fino a Giusy Ferreri (la Amy Winehouse dalla Trinacria). Non poteva dunque mancare una scena emo italiana. Ma band come i Lost e i dARI, invece di ispirarsi ai modelli originali, arrivano ad imitare gruppi tedeschi (Tokyo Hotel) che a loro volta emulano gruppi emo americani. Come nel gioco del telefono, dopo troppi passaggi si perde il senso del messaggio. Nel caso delle band emo italiane si è perso anche il senso del ridicolo.

sabato 14 marzo 2009

“…It's a Fucking Deathwish”: Il Meglio dell’Emo (Parte 2/3)


Sarebbe snob denigrare l’intero mainstream emo, anche perché ha generato alcuni dischi che ne trascendono i limiti. Eccone alcuni tra i miei preferiti (tutti, ribadisco, opera di gruppi più o meno mainstream – ci saranno altre occasioni per parlare di band più oscure):

#3: Panic! at the Disco: “A Fever You Can’t Sweat” (2006). Probabilmente l’unica band emo con senso dell’umorismo. Malgrado siano abitualmente massacrati dalla critica, ho un debole per questo loro disco eccessivo in tutto, dalle melodie baroccheggianti ai testi politicamente scorretti. “A Fever” è tanto orecchiabile che lo raccomanderei pure ad una nonna con l’Amplifon. I Panic si meritano pure una menzione per il miglior video emo di sempre – questo eviterei però di mostrarlo alla nonna.

#2: My Chemical Romance: “Three Cheers for Sweet Revenge” (2004). Il Kill Bill dell’emo, un concept album creato intorno alla figura di un killer che, tra stragi e occultamenti di cadavere, trova anche il tempo per dedicarsi ai travagli dell’amore. Chitarre punkeggianti, cori tanto melodici da risultare spesso melliflui, testi provocatoriamente surreali. “I never Told You What I Do for a Living” rappresenta un picco che i MCR non hanno ancora eguagliato.

#1: AFI: “Sing the Sorrow” (2002). Ai tempi della pubblicazione di “Sing the Sorrow”, gli AFI bazzicavano la scena punk-rock del Nord California già da una dozzina d’anni, senza suscitare grandi clamori. Aiutati dalla produzione levigata di Butch Vigg (Nirvana, Garbage), gli AFI misero assieme il disco della vita. In “Sing the Sorrow” si accumulano power ballad ed accelerazioni punk di qualità impressionante, tutte avvolte da una atmosfera cupa che echeggia la tradizione dark e goth inglese anni 80. “Sing the Sorrow” è il disco che il ragazzino depresso ascolta nella solitudine della sua cameretta, leggendone i testi a lume di candela: gli stilemi emo più sinistri nascono da qui, da musica che invita all’insofferenza per i compromessi del mondo adulto e da parole che rendono seducente l’abbandono di ogni speranza. Ma quando le passioni attorno all’emo si saranno sedate, “Sing the Sorrow” rimarrà comunque tra i migliori dischi rock del decennio.

sabato 7 marzo 2009

“It's Not a Fashion Statement...”: Parliamo di Emo (Parte 1/3)


L’emo è un movimento rock che risale alla fine degli anni 80. Originariamente noto come emocore, raccoglieva band della costa atlantica americana che cercavano di conciliare la durezza dell’hardcore rock con testi di grande sincerità emotiva. Col tempo l’emo si è ramificato in una molteplicità di varianti, alcune musicalmente molto innovative. Quello che però mi interessa discutere qui (e nei prossimi due post) è il mainstream emo – il fenomeno rock che negli ultimi 5/7 anni ha fatto breccia nei circuiti radiofonici generalisti e nella programmazione televisiva.

Come identificare una band mainstream emo?

SUONO. Pesante, veloce, melodico – almeno nelle intenzioni. Idealmente, un buon pezzo mainstream emo traveste una melodia pop con sonorità hard rock.

TESTI. Temi affrontati da un pezzo mainstream emo solitamente includono (i) depressione per una ragazza che non ti considera; (ii) depressione per una ragazza che ti ha tradito; (iii) depressione per una ragazza che non vuole capire che è finita; (iv) depressione per una ragazza che ti ha lasciato; (v) varie combinazioni dei punti precedenti.

TITOLI. Il titolo di una canzone mainstream emo che si rispetti deve essere abbastanza lungo da non essere interamente visibile sul display di un iPod. Ad esempio: “The Only Difference Between Martyrdom and Suicide Is Press Coverage” (Panic! At the Disco); “Sweat the Battle Before the Battle Sweats You” (Cute is What We Aim for); “You Know What They Do to Guys Like Us in Prison” (My Chemical Romance).

LOOK. Taglio asimmetrico, etti di eyeliner, t-shirt nera, skinny jeans, Converse. Per i più sofisticati: cravattino allentato su camicia con maniche arrotolate, che permettono di mostrare i tatuaggi sugli avambracci (il poster boy emo Pete Wentz dei Fall Out Boy nell'immagine).

Ma l’elemento più rilevante per una band emo, quello che ne determina la fortuna commerciale, è la devozione dei propri fan. Tutti i maggiori gruppi mainstream emo vantano una comunità di fan ben organizzata che mantiene siti web e discussion board, richiede alle radio di programmare canzoni dei propri beniamini, ne promuove incessantemente dischi e concerti. L’emo è il movimento musicale Internet per eccellenza, non potrebbe esistere se MySpace, blog, siti dedicati non mantenessero un contatto continuo tra persone con gusti musicali affini e le loro band preferite, fomentando un fanatismo talebano.

L’emo è diventato un movimento mainstream perché permette alle case discografiche di sopravvivere in un mondo dove si vendono sempre meno dischi, facendo leva proprio sui gruppi di fan:
  • Il modello di sfruttamento tradizionale di una band concentra i ricavi in un solo prodotto (un disco ogni due/tre anni) venduto al massimo numero di persone possibili – con la casa discografica che si fa carico degli ingenti costi di promozione. L'etichetta di solito si limita a trattenere una quota dei proventi dei dischi, a fronte di un anticipo commisurato al potenziale commerciale dell'artista
  • Il modello emo concentra i ricavi su una base fan ristretta, cui pero' vengono offerte continue opportunità di partecipare alla vita della band (oltre ai dischi, anche eventi, download di canzoni inedite, merchandise) – con le stesse comunità di fan che contribuiscono alle attività di promozione. Case discografiche con un forte identità emo come Fueled by Ramen spesso utilizzano una nuova tipologia di contratto discografico, il “multiple rights” o 360: a fronte di maggiori anticipi agli artisti e della copertura delle spese dei tour, il contratto permette all'etichetta di trattenere anche una fetta dei proventi dei concerti e del merchandise, oltre ad una parte dei ricavi dalle vendite di dischi.
In definitiva, l’evoluzione mainstream dell’emo si spiega come reazione dell’industria musicale al continuo calo di vendite di dischi, alla frammentazione del mercato musicale in tribù isolate e al tramonto della figura dell’artista rock globale - che con la propria musica riusciva a parlare a milioni di persone in tutto il mondo.